mercoledì 23 novembre 2011

PEDOFILIA FEMMINILE

La pedofilia è ormai entrata nella terminologia d'uso quotidiano quando pensiamo alle violenze sessuali perpetrate sui bambini.  Il pedofilo però, non è solo di genere maschile, come solitamente siamo portati a pensare e purchè le percentuali siano basse, esiste anche l'abuso sessuale ai danni di minori, da parte di donne. Da un rapporto del 2009 emerge che su cento casi di pedofilia, cinque corrispondono a pedofilia femminile.
Le caratteristiche dell'adescamento non si differenziano granchè da quelle di genere maschile : all'interno della famiglia oppure attraverso viaggi all'estero, infatti le donne pedofile avvicinano ed approcciano le loro vittime.
Difficilmente si scrive di donne pedofile, probabilmente per una cultura che di base rifiuta che una donna possa essere una potenziale abusatrice; la donna è naturalmente madre amorevole, fonte di vita e di cure.
Esistono alcune differenze sostanziali tra la pedofilia intra-familiare e la pedofilia extra-familiare femminile:  generalmente nel primo caso, le cause scatenati sono attribuibili a separazione, abuso, abbandono e perdita di una figura di riferimento importante. Sono quindi riconducibili ad esperienze traumatiche che non si sono risolte positivamente, ma persistono nella psiche di colei che diventerà abusatrice. Madri che continuano a fare il bagno a figli adolescenti, che spingono i figli ormai adulti, in assenza del padre, a dormire nel letto matrimoniale, sono alcuni dei comportamenti che fanno pensare, anche se, in realtà è molto complesso identificare un vero e proprio abuso poichè spesso, certi gesti sono paragonabili ad un accudimento abituale.  La pedofila exta-familiare invece, si è sviluppata a partire dal 1970. L'emancipazione femminile, ha portato l'indipendenza delle donne a migrare per viaggi di piacere e di conquista, in spiagge lontane...(in paesi nei quali ovviamente era "naturale" vedere prostituzione minorile).
Loredana Petrone e Marco troiano nel lro libro " E se l'orco fosse lei", individuano sei tipologie di pedofilia al femminile:

La pedofila latente - La donna nutre una morbosa attrazione nei confronti dei bambini, ha fantasie erotiche ma non arriva ad agire. Questo perchè, pur avvertendo sin dall’adolescenza la propria attitudine morbosa, le norme morali che le sono state inculcate la rendono consapevole del fatto che le sue pulsioni non sono socialmente accettabili e per questo motivo le nasconde.
La pedofila occasionale - La donna, pur non avendo pesanti distorsioni psicologiche, in situazioni particolari, come ad esempio nel corso di viaggi all’estero, soprattutto in Paesi con un forte tasso di turismo sessuale (come Cuba o la Thailandia), si lascia andare ad esperienze sessuali trasgressive. Si tratta, in genere, di donne di età compresa tra i 40 e i 50 anni, con un livello socio-culturale medio-alto, single o divorziate.
La pedofila immatura - La donna non è mai riuscita a sviluppare normali capacità di rapporto interpersonale con coetanei, manca di una sufficiente maturità nella sfera affettiva ed emotiva e pertanto rivolge le sue attenzioni al bambino, dal quale non si sente minacciata. Questo tipo di pedofila, di solito, non ha comportamenti aggressivi ma di tipo seduttivo e passivo.
La pedofila regressiva - La donna, ad un certo punto della sua vita, inizia ad avvertire un senso di inadeguatezza a convivere con gli stress quotidiani, e questo la porta a regredire nella fase infantile, iniziando così a rivolgere il suo interesse sessuale verso i bambini, sentendosi essa stessa bambina.
La pedofila sadico-aggressiva - La donna manifesta spesso un comportamento schivo e antisociale, trae piacere nel provocare il dolore e, alle volte, la morte della sue piccole vittime. Alla base di questo comportamento distruttivo c’è sempre un background di aggressività, frustrazione ed impotenza, un sentimento di svalutazione di sè e degli altri.
La pedofila omosex - La donna trasferisce su una bambina l’amore che non ha ricevuto dalla mamma. Si identifica con la piccola, vittima delle sue attenzioni, e vede nella bimba ciò che lei stessa era alla sua età ed attraverso l’abuso, non necessariamente invasivo, riesce a colmare le carenze affettive subite.
Per le categorie: fonte movimentocivilecontrolapedofilia
Erika D.T.

lunedì 21 novembre 2011

Henrietta Laks

Apparteneva a una famiglia afroamericana molto povera e lavorava in una piantagione di tabacco. Madre di 5 figli, morì quando aveva 31 anni a causa di un cancro alla cervice. E' stata una delle più importanti figure sconosciute della medicina mondiale ma lei non lo ha mai saputo." (cit. Skloot)
Durante una biopsia le furono prelevate alcune cellule tumorali uterine, successivamente commercializzate con il nome HeLa. Tali cellule sono ad oggi una delle più importanti e diffuse scoperte nell'ambito della ricerca medica genetica, grazie ad alcune caratteristiche che le rendono speciali. Le cellule di Henrietta Lacks riproducevano un'intera generazione in sole 24 ore, e per questo sono dette naturalmente 'immortali', possono essere riprodotte in vitro senza morire. Hanno la particolarità di avere 82 cromosomi, molti di più rispetto alle cellule normali. Queste caratteristiche genetiche sono dovute al fatto che l'enzima Telomerasi è stato mutato dal virus del papilloma umano e ciò consente alle cellule di non invecchiare mai.
Sorge però una questione etico-morale: Henrietta, non fu una donatrice consapevole. Il prelievo le venne fatto senza chiederle il consenso durante una delle sedute di terapia oncologica che stava seguendo. Il dubbio legittimo che non le venne chiesto perchè di ceto inferiore ed afro-americana, sorge spontaneo.Si è molto dibattuto sul fatto che la donatrice non fosse stata informata.
Morì a 31 anni nel 1951 a Baltimora.
Con la scusa amorevole della prevenzione e della possibile ereditarietà  tumorale, i figli di Henrietta, vennero sistematicamente controllati e furono sottoposti a prelievi cellulari per un certo periodo; in realtà, i medici volevano solo appurare la presenza o meno di altre cellule uguali a quele della loro madre... cellule che hanno contribuito a mettere a punto anche il vaccino per la poliomelite.
Ovviamente possiamo solo immaginare l'enorme giro economico e di business che la scoperta delle cellule HeLa ha apportato ad industrie farmaceutiche, ricercatori, medici illustri...
Una provetta da 100 microgrammi di cellule HeLa costa, oggi, più di 100 dollari. Se pensiamo che in questi 60 anni sono state riprodotte più di 50 milioni di tonnellate di queste cellule, il ricavato avrebbe fatto, degli eredi di Henrietta, la famiglia più ricca del mondo.
Invece, le cellule originali furono prese senza il consenso di Henrietta e neanche una piccola, minima parte dei proventi che ne derivarono fu devoluta alla sua famiglia.
Oggi Henrietta giace a Clover, in Virginia, in una tomba senza lapide.
Per i figli e i nipoti ammalarsi è ancora un lusso, come racconta uno dei suoi figli:
"Ci sentiamo molto amareggiati. Le cellule di mia madre sono state usate in tutto il mondo per scopi scientifici e la copertura sanitaria che noi abbiamo è zero, per me e per tutti i miei fratelli"
Il libro "La vita immortale di Henrietta Lacks", non ancora pubblicato in Italia, sta facendo conoscere a tutti la storia di questa donna che, di fatto, ha cambiato le sorti della medicina. L'autrice ha istituito una fondazione per onorarne la memoria e per assicurare delle borse di studio ai suoi nipoti.
Lascio a voi l'ardua sentenza....
Erika D.T.

Che fine ha fatto il piccolo nella famosa foto dal Sudan, premio pulitzer del 1994, stremato dalla siccità...

Probabilmente molti di voi conoscono bene questa fotografia, divenuta icona e simbolo del volto dell’Africa devastato da guerre, carestie, malattie… famosa ed evocativa quanto quella della giovane Sharbat Gula di Steve McCurry o della ragazzina vietnamita Kim Phuc in fuga da un bombardamento al napalm del suo villaggio, fotografata da Nick Ut, premio Pulitzer 1972. Anche questa foto scattata nel marzo 1993 in Sudan durante la guerra civile dal fotogiornalista sudafricano Kevin Carter vince il Pulitzer nel 1994, ma appena due mesi dopo Kevin Carter muore suicida e un sacco di interrogativi muoiono con lui. Questa piccola bambina segnata dagli stenti, indifesa, rannicchiata su se stessa, presa di mira da un avvoltoio paziente e implacabile, ha fatto il giro del mondo per la sua forza dirompente e per le critiche mosse al suo autore, che è stato a lungo immobile a guardare la scena per scattare la fotografia … e qualcuno non ha esitato a paragonare all’avvoltoio.Così è sopravvissuto il bambino africano minacciato dall’avvoltoio  Che fine ha fatto il piccolo nella famosa foto dal Sudan, premio pulitzer del 1994, stremato dalla siccità e sull’orlo della morte? 
El Mundo ha fatto un viaggio. E’ volato fino in Sudan per trovare il soggetto della famosa foto di Kevin Carter, Bambina in agonia, scattata nel 1993. La foto non ha bisogno di presentazioni, e simboleggia in maniera ben più forte di qualsiasi parola la drammaticità della situazione africana, piagata dalla fame e distrutta dalla siccità. OMISSIONE DI SOCCORSO Al tempo della foto, il fotografo fu duramente criticato. La foto vinse il premio Pulitzer nel 1994, ma poi Carter si suicidò. “Perchè, invece di fotografare, non aiutò il bambino in difficoltà?”. El Mundo, per dare la risposta a questa domanda, ha prima analizzato la foto in profondità, e poi ha viaggiato in Sudan. La creatura nella foto porta sulla sua mano destra una polsiera di plastica della locale missione Onu, installata in quei giorni.

Kevin Carter
Può un oggetto essere bello e orrendo allo stesso tempo? Può un’immagine raffigurare l’orrore ed essere dotata di un tremendo fascino ipnotico? Può coniugarsi la potenza di una descrizione con lo smarrimento dello spirito e con la perdita dell’umanità? Era giovane Kevin, un ragazzo. E come tutti i giovani, sognava di salire sulla vetta del mondo. Ci è pure salito Kevin, in cima al mondo, ma quando si è ritrovato a contemplare, dal silenzio dell’altezza raggiunta, il baratro che lo circondava, specchio infranto del vuoto del suo spirito disperato, non ha resistito ed ha scelto il silenzio; quello assoluto e senza sottintesi della morte. Nella forma che riscatta dai delitti dello spirito o dalle ansie della volontà: il suicidio.Kevin Carter è stato un giornalista. Il suo giornalismo non era fatto di parole, non dava adito ad interpretazioni e non concedeva nulla ai malintesi. Il suo era il giornalismo fatto con le immagini; quelle che l’obiettivo della sua macchina fotografica riusciva a fissare sull’emulsione della pellicola. Era giovane, Kevin, l’abbiamo detto. Sudafricano di Johannesburg, nato nel 1960, in pieno regime di “apartheid”. Ed era stato proprio in questo periodo che il giovane fotografo aveva iniziato a documentare le atrocità che gli uomini, in nome di “ideali superiori”, riuscivano a perpetrare su altri uomini; le brutalità che riuscivano a commettere, spinti più che da nuovi ideali, da antichi odi.Lavorando al Johannesburg Star, Carter fu il primo a documentare, negli anni ottanta, la “necklacing execution” o supplizio del pneumatico. Una pratica di barbara brutalità con la quale si faceva ardere un pneumatico attorno al collo di un uomo. Successivamente, sarebbe arrivato a dire di quelle orrende immagini: “Ero sconvolto vedendo cosa stavano facendo. Ero spaventato per quello che io stavo facendo. Ma poi le persone hanno iniziato a parlare di quelle immagini, così ho pensato che forse le mie azioni non fossero poi così cattive. Essere stato un testimone di qualcosa di così orribile non era necessariamente un male.” Ma non furono queste immagini “urlanti” a determinare la sua fine, bensì un’immagine “silenziosa”. Non con uno schianto finirà il mondo, ma con un lamento, ci ricorda il poeta ed è con un sommesso lamento che è finito il mondo per Kevin Carter. Probabilmente molti conoscono la foto che ha dato a questo fotografo, sia la fama planetaria che l’impossibilità di continuare a vivere. È una delle più potenti e spiritualmente devastanti immagini che si possano vedere. Una di quelle immagini che non vorremmo mai vedere e che dobbiamo invece vedere e ripassare davanti ai nostri occhi costantemente. Per non dimenticare. Mai. La foto, scattata nel marzo 1993 in Sudan durante la guerra civile, fa vincere a Carter il Premio Pulitzer nel 1994, ma gli fa anche porre fine alla propria vita, appena tre mesi dopo. Tre mesi, solo in vetta al mondo, contemplando la propria disperata solitudine, raggiunto, nonostante l’altezza, dal biasimo che lo circondava, ma soprattutto da un flebile lamento che gli ricordava, come dice Hillman, che “la maggior parte dell’anima sta fuori dal corpo”. Poi, la fine, il silenzio, la pace per quell’anima sofferente e incapace di ritrovarsi, dopo l’incontro “irrisolto” con una piccola immensa creatura.Kevin Carter muore suicida e molti interrogativi lo accompagnano nella tomba.
Annalaura Paduano

domenica 20 novembre 2011

LA VIOLENZA - (teoria psico-dinamica)

La violenza è quel comportamento che è all’antitesi del bene. Ciò che viene palesato corrisponde a ciò che è dentro di noi.
Globalmente, circa il 20% della popolazione mondiale detiene circa l’80% della ricchezza del pianeta, percentuale data dallo sfruttamento da parte dei paesi così detti sviluppati verso quelli sotto-sviluppati. Assistiamo a  guerre finalizzate al “proprio” tornaconto economico, atti terroristici guidati da ideologie “religiose” -  politico-sociologiche, la disgregazione e la noncuranza del pianeta Terra…pianeta che fa la sua “rivoluzione” contro la violenza che viene esercitata su di esso… uragani, terremoti, tsunami…
La nostra Nazione, quella che fu Patria di poeti, di uomini d’arte, di umanisti, al giorno d’oggi è testimone di sempre e crescenti violenze nei confronti delle donne e dei bambini, fonti giocose e di gioia. Bullismo, Stalking, Pedofilia, Mobbing: forme di abuso psico-fisico costante. Anche qui, nella nostra Italia lo sconforto nel vedere le famiglie che non sono quelle che ci hanno identificato un po’ nel Mondo, lascia tristezza.
I giovani, i nostri ragazzi, crescono con modelli altamente dis-educanti. Assumono condotte auto-deformanti, aggressività, disturbi alimentari, abusi di sostanze stupefacenti, dipendenze da alcool e percezione del pericolo annullata. Voglia di sconfiggere la morte, voglia di rischiare la vita con corse clandestine ed anabolizzanti per apparire.

AD-GREDERE = AGGREDIRE
L’aggressività, in una certa dose, è fondamentale nelle normali azioni quotidiane e di vita per raggiungere uno scopo. Nel momento in cui volge il suo significato alla distruzione e non alla partecipazione, si tramuta in primo luogo in aggressione, poi in violenza.
La violenza è un conflitto, rappresenta una difesa ad una minaccia al proprio Sé.
Come ci si difende violentemente?
I meccanismi di difesa, in questo contesto, rispecchiano tre occasioni favorevoli verso cui dirigere la violenza:
L’estraneo, il diverso dal proprio Sé (scissione e proiezione- lotta tra bene e male). La psiche indirizza la violenza verso una persona che “non ci piace”, verso una persona che per il nostro Sé impersonifica il male…. Pensiamo all’omofofia (il diverso-gay è colui che non mi rappresenta pubblicamente, ma che temo di essere….)
Il debole o l’inerme e l’Autorità, invece, sono espressione di difese psichiche più mature e secondarie che fanno riferimento alle tre istanze della personalità di Freud: Io(la parte che dimostro esternamente di me),  Es (pulsioni primitive non controllabili, immorali), Super-Io (moralizzatore e mediatore dei comportamenti inopportuni).

La debolezza
Persone disabili, bambini, persone economicamente deboli, poco istruite e poco intelligenti, secondo la teoria presentata, sono vulnerabili. La persona violenta, che possiede una funzione del super-io persecutorio ed oppressivo nei confronti della parte “bambina” di sé, mette in atto il male invece di AGGREDIRE IL PROPRIO SE’ infantile. E’ più semplice dimostrare esternamente il male piuttosto che attaccarsi internamente. Meglio la parvenza di una perfezione esteriorizzata che il dovere combattere con i propri fantasmi.
L’autorità e la sfida ad essa
In questo caso, come nella struttura borderline della personalità il super-io, il moralizzatore della psiche, è assente, maligno. Quindi, nessun freno può essere posto alla violenza manifesta.
Erika De Toffol

IL BAMBINO MALTRATTATO

Il radiologo J. Caffey , circa sessanta anni fa, metteva in evidenza che diversi bambini giunti all'ospedale e sottoposti ad accertamenti radiologici, presentavano diverse fratture multiple ed emoraggie sub-durali.
Negli anni sessanta il pediatra Kempe coniò il termine battered child syndrome (la sindrome del bambino battuto) per descrivere i sintomi di quei bambini che venivano sistematicamente picchiati dai loro genitori o tutori.
Negli anni successivi si introdusse il concetto che oltre ad un tipo di abuso fisico se ne affiancavano anche uno di tipo psicologico ed uno dell'abbandono (in-curia).
L'incuria è un tipo di abuso che si manifesta con privazione di cibo, affetto, cure mediche e privazione di alimenti vitali come l'acqua; in poche parole determina un danneggiamento non accidentale della condizione di benessere fisico, psicologico ed affettivo del bambino. Condizione che comprende anche la disidratazione (deriva dalla privazione di acqua), emorragie craniche in seguito a scuotimento del bambino insieme a ecchimosi e lacerazioni.
Tra i maltrattamenti del bambino, una forma decisamente importante di abuso è la deprivazione affettiva che influenza a volte in modo anche grave la crescita e lo sviluppo emotivo del bambino.
I bambini di età inferiore ai sei anni sono in genere i soggetti più a rischio di questi maltrattamenti.
Tra le cause che determinano la vittimizzazione alla sindrome del bambino battuto ci sono la scarsa forza fisica (quindi fanno fatica a scappare e/o difendersi) e le categorie di bambini che dimostrano i primi sintomi di malattie croniche, gli iperattivi, i bambini con handicap ed i bambini nati da gravidanze indesiderate.
In tutti i Paesi del mondo, in ogni entnia ed in qualsiasi realtà sociale ed economica si verificano casi di abuso ai danni di minori. Non è raro che un genitore abusante sia stato abusato e quindi non essere in grado di realzionarsi emotivamente con i propri figli. La responsabilità della rete sociale, infine, è un fattore molto importante di prevenzione del rischio e della reiterazione del fatto-reato: se un medico, uno psicologo oppure un insegnante si rendono conto che qualche cosa potrebbe essere stato fatto ad un minore, vige l'obbligo di intervento.
Erika D.T.