lunedì 21 novembre 2011

Che fine ha fatto il piccolo nella famosa foto dal Sudan, premio pulitzer del 1994, stremato dalla siccità...

Probabilmente molti di voi conoscono bene questa fotografia, divenuta icona e simbolo del volto dell’Africa devastato da guerre, carestie, malattie… famosa ed evocativa quanto quella della giovane Sharbat Gula di Steve McCurry o della ragazzina vietnamita Kim Phuc in fuga da un bombardamento al napalm del suo villaggio, fotografata da Nick Ut, premio Pulitzer 1972. Anche questa foto scattata nel marzo 1993 in Sudan durante la guerra civile dal fotogiornalista sudafricano Kevin Carter vince il Pulitzer nel 1994, ma appena due mesi dopo Kevin Carter muore suicida e un sacco di interrogativi muoiono con lui. Questa piccola bambina segnata dagli stenti, indifesa, rannicchiata su se stessa, presa di mira da un avvoltoio paziente e implacabile, ha fatto il giro del mondo per la sua forza dirompente e per le critiche mosse al suo autore, che è stato a lungo immobile a guardare la scena per scattare la fotografia … e qualcuno non ha esitato a paragonare all’avvoltoio.Così è sopravvissuto il bambino africano minacciato dall’avvoltoio  Che fine ha fatto il piccolo nella famosa foto dal Sudan, premio pulitzer del 1994, stremato dalla siccità e sull’orlo della morte? 
El Mundo ha fatto un viaggio. E’ volato fino in Sudan per trovare il soggetto della famosa foto di Kevin Carter, Bambina in agonia, scattata nel 1993. La foto non ha bisogno di presentazioni, e simboleggia in maniera ben più forte di qualsiasi parola la drammaticità della situazione africana, piagata dalla fame e distrutta dalla siccità. OMISSIONE DI SOCCORSO Al tempo della foto, il fotografo fu duramente criticato. La foto vinse il premio Pulitzer nel 1994, ma poi Carter si suicidò. “Perchè, invece di fotografare, non aiutò il bambino in difficoltà?”. El Mundo, per dare la risposta a questa domanda, ha prima analizzato la foto in profondità, e poi ha viaggiato in Sudan. La creatura nella foto porta sulla sua mano destra una polsiera di plastica della locale missione Onu, installata in quei giorni.

Kevin Carter
Può un oggetto essere bello e orrendo allo stesso tempo? Può un’immagine raffigurare l’orrore ed essere dotata di un tremendo fascino ipnotico? Può coniugarsi la potenza di una descrizione con lo smarrimento dello spirito e con la perdita dell’umanità? Era giovane Kevin, un ragazzo. E come tutti i giovani, sognava di salire sulla vetta del mondo. Ci è pure salito Kevin, in cima al mondo, ma quando si è ritrovato a contemplare, dal silenzio dell’altezza raggiunta, il baratro che lo circondava, specchio infranto del vuoto del suo spirito disperato, non ha resistito ed ha scelto il silenzio; quello assoluto e senza sottintesi della morte. Nella forma che riscatta dai delitti dello spirito o dalle ansie della volontà: il suicidio.Kevin Carter è stato un giornalista. Il suo giornalismo non era fatto di parole, non dava adito ad interpretazioni e non concedeva nulla ai malintesi. Il suo era il giornalismo fatto con le immagini; quelle che l’obiettivo della sua macchina fotografica riusciva a fissare sull’emulsione della pellicola. Era giovane, Kevin, l’abbiamo detto. Sudafricano di Johannesburg, nato nel 1960, in pieno regime di “apartheid”. Ed era stato proprio in questo periodo che il giovane fotografo aveva iniziato a documentare le atrocità che gli uomini, in nome di “ideali superiori”, riuscivano a perpetrare su altri uomini; le brutalità che riuscivano a commettere, spinti più che da nuovi ideali, da antichi odi.Lavorando al Johannesburg Star, Carter fu il primo a documentare, negli anni ottanta, la “necklacing execution” o supplizio del pneumatico. Una pratica di barbara brutalità con la quale si faceva ardere un pneumatico attorno al collo di un uomo. Successivamente, sarebbe arrivato a dire di quelle orrende immagini: “Ero sconvolto vedendo cosa stavano facendo. Ero spaventato per quello che io stavo facendo. Ma poi le persone hanno iniziato a parlare di quelle immagini, così ho pensato che forse le mie azioni non fossero poi così cattive. Essere stato un testimone di qualcosa di così orribile non era necessariamente un male.” Ma non furono queste immagini “urlanti” a determinare la sua fine, bensì un’immagine “silenziosa”. Non con uno schianto finirà il mondo, ma con un lamento, ci ricorda il poeta ed è con un sommesso lamento che è finito il mondo per Kevin Carter. Probabilmente molti conoscono la foto che ha dato a questo fotografo, sia la fama planetaria che l’impossibilità di continuare a vivere. È una delle più potenti e spiritualmente devastanti immagini che si possano vedere. Una di quelle immagini che non vorremmo mai vedere e che dobbiamo invece vedere e ripassare davanti ai nostri occhi costantemente. Per non dimenticare. Mai. La foto, scattata nel marzo 1993 in Sudan durante la guerra civile, fa vincere a Carter il Premio Pulitzer nel 1994, ma gli fa anche porre fine alla propria vita, appena tre mesi dopo. Tre mesi, solo in vetta al mondo, contemplando la propria disperata solitudine, raggiunto, nonostante l’altezza, dal biasimo che lo circondava, ma soprattutto da un flebile lamento che gli ricordava, come dice Hillman, che “la maggior parte dell’anima sta fuori dal corpo”. Poi, la fine, il silenzio, la pace per quell’anima sofferente e incapace di ritrovarsi, dopo l’incontro “irrisolto” con una piccola immensa creatura.Kevin Carter muore suicida e molti interrogativi lo accompagnano nella tomba.
Annalaura Paduano

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